Small vademecum of the present industrial pride by Gennaro Rega
Articolo di minima&moralia pubblicato martedì, 10 marzo 2020
In questi giorni tetri e preoccupati di diffusione del contagio di Covid – 19, il conforto della lettura mi ha spinto, come penso molti, a rileggere e a riflettere sui capitoli XXXI e XXXII dei Promessi sposi, quelli per intenderci sulla peste, sulle teorie miasmatiche allora in voga e sugli untori. Ho però anche sfogliato le sue pagine finali. “Le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino”, scrive con positivo spirito impreditorial-borghese don Lisander.
Da qui il destro di raccogliere, in una fase che nel giro di qualche settimana ci ha prospettato gran parte degli indicatori economici in repentina e imprevedibile picchiata, alcune impressioni che invece nei mesi scorsi mi erano parsi sintomi di un “rincammino” della nostra industria.
All’ inizio di febbraio (e sembra davvero un’era fa, quando il manager che si avviava al microfono davanti ad un folto uditorio poteva esordire, suscitando immediata ilarità fra il pubblico: “Sono appena sbarcato da un volo proveniente dalla Cina, ma non preoccupatevi, non ho il corona virus!”) ho avuto modo di assistere alla presentazione del volume edito da Mondadori, a cura della Fondazione Pirelli, intitolato Umanesimo industriale – Antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni.
La manifestazione era ospitata nel corpo di fabbrica denominato “La Centrale” della suggestiva “Nuvola” Lavazza, ideata dall’architetto Cino Zucchi. Qualche anno fa in un quartiere piuttosto degradato della città di Torino, questa importante azienda del caffè ha risanato e ristrutturato circa 30.000 metri quadrati di terreni e di vecchi edifici, costruendovi la propria sede, il museo e l’archivio storico Lavazza, degli ambienti per la ristorazione e per lo svago, mettendo in luce perfino alcuni interessanti resti archeologici. Dunque l’ impresa ha voluto reinvestire una parte dei suoi proventi per accrescere il benessere dei propri dipendenti e di una intera comunità, avendo come obiettivo il bello e l’utile. L’ incontro ha permesso, prendendo spunto dai contenuti del libro, che è un omaggio retrospettivo alla storica rivista Pirelli, di fare il punto sul ruolo culturale di una azienda oggi e su quanto questo ruolo sia cambiato rispetto ad un non lontano Passato.
L’equazione “industria d’avanguardia = cultura d’avanguardia” in Italia si definì con chiarezza soprattutto nel secondo dopoguerra e permise ad artisti e scrittori di lasciare una testimonianza legittimante nei confronti dell’impetuoso sviluppo industriale del nostro Paese . Ma attualmente le imprese industriali svolgono ancora una attività culturale al di là del loro fare, del loro essere produttive? O piuttosto questa gloriosa tradizione italiana di un umanesimo industriale, affermatasi appunto negli anni ‘50 e ‘60, si è oggi un po’ perduta?
Senza nessuna pretesa di esaustività, la mia riflessione sul tema si avvia estrapolando per sommi capi alcune tappe di questa sinergia che nell’ultimo cinquantennio del Novecento ha vissuto alterne vicende, fasi di splendore e altre di oscuramento. Poi, iniziato il millennio, ci si è trovati a fare i conti con una sorprendente rivoluzione tecnologica e antropologico-culturale. Infatti con una accelerazione mai prima sperimentata, stanno cambiando, ad esempio, il modo di pensare i beni industriali, il modo di lavorare dentro gli uffici e nelle fabbriche, la catena di forniture e di distribuzione delle materie prime e delle merci, le competenze progettuali e professionali. E la cultura, sulla base di una funzione che le compete, deve portare il suo contributo umanistico e critico agli innovativi processi della cosiddetta smart factory.
La felice intuizione di Leonardo Sinisgalli, intellettuale poliedrico e direttore della rivista Civiltà delle macchine (primo numero gennaio 1953) del gruppo industriale pubblico, Finmeccanica, introdusse nelle industrie gli intellettuali, ideando la rubrica Visite in fabbrica (su cui Giuseppe Lupo, in collaborazione con G. Lacorazza, ha scritto un saggio imprescindibile: L’anima meccanica, Avagliano editore). Scrittori come Gadda, Ungaretti, Prisco, Arpino, Caproni, de Libero e artisti come Cantatore, Gentilini, Mafai, Turcato, Tadini, pur ognuno con un diverso atteggiamento, osservando in presa diretta il lavoro produttivo degli operai, ne valorizzavano la maestria e la creatività per nulla inferiori a quelle che nel loro impegno solitario ed individuale tentavano di raggiungere con le loro opere. Così l’arte rivendicava anche nella officina, nella fabbrica moderne, il concetto fondante degli operosi cantieri del Rinascimento: mettere l’uomo al centro, ed essere in grado sempre di innovare il proprio fare.
I grandi dirigenti d’industria durante la ricostruzione del Dopoguerra, nella sopraggiunta modernità degli impianti industriali con il conseguente loro impatto nel sociale e nel territorio, furono sollecitati a nuove riflessioni e a più larghe aperture mentali perché occorreva proporre al pubblico «l’ acciaio o la gomma come chiave per il progresso».
Civiltà delle macchine non fu comunque un caso isolato: altri periodici aziendali come Comunità (1946 – 1992) di Adriano Olivetti, Ferrania (1947 – 1967), La Rivista Pirelli (1948 – 1972), Esso Rivista (1949 – 1983), Il gatto selvatico (1955 – 1965) dell’ENI dei tempi di Enrico Mattei, raggiunsero quel fine che Ascanio Dumontel delineava in un articolo del 1954 per il periodico dell’ENI: Dobbiamo creare un nuovo umanesimo che risponda ai nostri bisogni e alle nostre urgenze. Un umanesimo che non sia meccanico ma tecnico. I greci chiamavano “tecnica” (τέχνη) l’abilità, la destrezza, l’arte. E ci sembra che proprio questa parola arte, in quel senso che già le davano gli antichi, sia quella che più definisce la nostra civiltà meccanica. Civiltà tecnica, civiltà artistica.
Questi importanti house organs si svilupparono non a caso soprattutto lungo la direttrice Milano-Ivrea : l’una città europea per eccellenza, l’altra città dell’utopia del lavoro. Mentre Torino, pur primario polo industriale grazie alla FIAT e al suo indotto, non produsse una analoga esperienza, a causa di rigide scelte aziendali dovute al suo management, guidato dall’ingegner Vittorio Valletta in primis).
Ma non soltanto i taccuini degli scrittori e i loro testi scritti respirarono l’aria della fabbrica. Anche opere d’arte o intere mostre furono allora realizzate grazie alla collaborazione delle maestranze presenti in alcuni stabilimenti dei grandi gruppi industriali : ad esempio, nel 1959 Civiltà delle macchine dedica un articolo alla Commessa 60124 . Si trattava di una scultura in bronzo alta 15 metri, purtroppo successivamente andata distrutta e modellata l’anno prima dall’artista friulano Nino Franchina assieme ad una squadra di operai della Cornigliano di Genova per la Mostra internazionale delle telecomunicazioni. Nell’ambito del V Festival dei Due Mondi di Spoleto (1962) ci fu la mostra Sculture nella Città, in occasione della quale l’Italsider invitò dieci artisti all’interno delle sue fabbriche per creare le opere in collaborazione con gli operai. In diversi stabilimenti lavorarono Alexander Calder (Savona), Lynn Chadwick (Cornigliano), Ettore Colla (Bagnoli), Pietro Consagra (Savona), Nino Franchina (Cornigliano), Carlo Lorenzetti (Savona), Beverly Pepper (Piombino), Arnaldo Pomodoro (Lovere), David Smith (Voltri) ed Eugenio Carmi (Cornigliano).
Dunque la creatività si legava all’esperienza lavorativa nella realizzazione di “prodotti culturali” destinati ad influire fortemente sulle vicende artistiche dell’epoca.
Inoltre, come le riviste prima citate ben testimoniano, nell’arco di quei due decenni ci fu lo sbocciare della moda, del design, della grafica italiane che contribuirono a far entrare il bello e il ben fatto nella vita quotidiana di milioni di persone. Quindi tradizione e innovazione si fondevano in quello che alcuni studiosi definiscono il secondo Rinascimento italiano.
A questo punto, però, torniamo al quesito di partenza: la cosiddetta industria 4.0 del nuovo millennio si sta attrezzando come soggetto culturale? La risposta, a mio parere, tenderebbe ad essere affermativa, se possono in qualche modo valere le tracce di iniziative e di scelte operate specialmente nell’ultimo periodo di timida ripresa economica e di cui con questo articolo cerco di dar conto.
È indubbio che il rapporto fra pensiero umanistico e innovazione tecnologica ha molto a che fare con la possibilità da parte delle nostre aziende di continuare a competere sui mercati globali. D’altronde, passata l’ubriacatura per la speculazione finanziaria, tipica degli anni novanta del XX secolo, l’Italia rimane pur sempre un paese a vocazione manifatturiera. La parola “fabbrica” era sembrata scomparire, relegata ai paesi in via di sviluppo, perché noi ci definivamo paese dal terziario avanzato. Eppure tanta media e piccola industria non ha badato a questo andazzo ma nelle alterne e tempestose vicende economico-borsistiche del primo ventennio del secolo ha cercato di migliorare i luoghi di produzione e li ha innovati. E’ il momento perciò di rilanciare il binomio industria – cultura: infatti industria è cultura, come icasticamente ha concluso il suo intervento Antonio Calabrò, direttore Fondazione Pirelli, nel dibattito seguito alla presentazione del libro Umanesimo industriale.
Francesco Morace, ideatore del Festival della Crescita che di anno in anno si svolge in varie località italiane e uno dei fondatori dell’associazione di studiosi ed esperti denominata The Renaissance Link, individua le dieci qualità “rinascimentali” indispensabili da ripristinare per il rilancio dell’Italia: i Talenti; il Design; la Maestria; la Co-opetizione; l’Empatia; il Riconoscimento; l’Officina creativa; la Meraviglia; la Tempestività; l’Irradiazione.
E se nel 2018 la rivista Forbes Italia ha potuto dedicare un intero numero agli imprenditori protagonisti del cosiddetto terzo Rinascimento italiano, significa che c’è una parte dell’imprenditoria disposta ancora a far rinascere lo spirito delle parole pronunciate dal “visionario” Adriano Olivetti il 23 aprile 1955 all’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli:
Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica […]? La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un ambito economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale e sociale del luogo ove fu chiamata ad operare. […] Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del tutto incompiuto, risponde ad una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo.
Per rilanciare in Italia una vera cultura industriale occorre, però, far emergere le tante, belle ma sparse realtà innovative, coordinarle e proporre un punto di equilibrio fra Stato e Impresa. Infatti quest’ultima è più dinamica di quanto le statistiche sugli investimenti nella innovazione indichino: 1,2% del PIL. Dipende dal fatto che tendenzialmente la dimensione medio-piccola della impresa italiana spinge ad inserire questi costi sotto la voce “consulenze”. In realtà il nostro export è il quinto al mondo per surplus strutturale di manufatti (valore aggiunto) con l’estero.
Inoltre l’imprenditore o il manager debbono saper riconoscere e valorizzare nei loro collaboratori e operai il contributo di creatività e di serio lavoro che portano alla realizzazione dei prodotti e al loro successo sul mercato. Bisogna saper bilanciare il profitto economico con il benessere dei dipendenti e valorizzare il luogo in cui si opera, affinché vi sia una ricaduta, su tutta la società, dei profitti che si sanno ottenere. Infatti è forte la responsabilità sociale della azienda che non può più soltanto limitarsi a dare (dividendi) ma anche deve fare (per le persone).
Ciò premesso, non sorprende, ad esempio, il lancio di una pubblicazione come Nuova Civiltà delle macchine. “Uno spazio colto e libero, aperto ai pensieri e ai soggetti che possono aiutarci a capire, conoscere e interpretare la modernità” recita il frontespizio sul web del magazine, sponsorizzato da Fondazione Leonardo (ex Italsider), avviato a giugno 2019 e prossimo al quarto numero. Rimando direttamente al sito per la missione, gli obiettivi, l’area progettuale e lo statuto. Tra i temi più sensibili toccati dagli articoli fin qui pubblicati, segnalerei quello sui media digitali sempre più al centro di ogni futura trasformazione del vivere umano. Bisogna renderli “naturali, adattivi, responsivi” per giungere ad una relazione uomo-macchina familiare e aggradente, mettendo, ad esempio,fin da subito in pratica una carta etica e giuridica della Intelligenza artificiale (I.A.).
Il quarantenne scrittore veneto Francesco Targhetta si è messo in luce nella cinquina del Campiello 2018 con Le vite potenziali. La prima presentazione del libro è avvenuta all’interno di un’azienda informatica, l’Alpenite , del polo tecnologico- industriale Vega di Marghera, dove l’autore ha fatto un’esperienza di quasi due anni. Il romanzo è appunto ambientato in quel settore dell’ industria 4.0. Intervistato da Veronica Tabaglio per il saggio Imprese letterarie, edito (dicembre 2019) da Ca’ Foscari, a cura del docente di Italianistica comparata, Alessandro Cinquegrani, Targhetta dichiara:
Quando un’impresa si apre al mondo della cultura (sponsorizzando o ospitando un evento, un premio, una giornata di studi), ne trae benefici, per lo più non valutabili sul breve termine ma innegabilmente utili a fare curriculum, e lo stesso accade a uno scrittore, che entrando in un’azienda ha l’opportunità di portare le proprie opere a un pubblico nuovo rispetto a quello dei circoli di lettori o delle biblioteche. Le resistenze andranno vinte aprendo questi incontri a chi diffida della loro efficacia: naturalmente esistono aziende disinteressate alla cultura, imprenditori gretti, scrittori misantropi, poeti a proprio agio nell’isolamento o decisi a non scendere in alcun modo a patti con il capitale (in effetti quest’ultima categoria credo che non esista più), ma la mia impressione è che, almeno nel tessuto veneto, vadano aumentando le possibilità di collaborazione.
L’opera, con la citazione precedentemente indicata, è integralmente consultabile on-line. Rappresenta una prima articolata sintesi dei lavori di ricerca che si erano avviati con il convegno veneziano del giugno 2018 dallo stesso titolo, Imprese letterarie, allo scopo di “uscire dalla fabbrica e dalle biblioteche e incontrarsi nel mondo di tutti i giorni, trovando un territorio comune da abitare, vivere, innovare”. Siamo nel mosso e contradditorio Nord-Est del nostro paese e il corposo saggio offre una fattiva conferma di quanto potrebbe essere reciprocamente utile un rinnovato dialogo fra “le due culture” .
Da qualche anno esiste una sinergia tra il Dipartimento di Management e quello di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia volta a indagare e comprendere l’universo imprenditoriale con gli strumenti delle materie umanistiche. Da una parte i letterati escono dalle biblioteche e mettono le loro conoscenze a disposizione della cultura imprenditoriale e dall’altra le aziende escono dal semplice ambito del fare così come richiede la nuova situazione del mercato.
(introduzione, op. cit., pp.11-12)
Concludo queste note, affidandomi alle impressioni riportate da una recente visita in fabbrica. A fine gennaio con un gruppo del FAI sono potuto entrare nei locali della azienda Giovanardi di Concorezzo (Mi), attualmente specializzata nella realizzazione di espositori per il fashion, per le grandi firme della moda, dove da ottobre 2019 è visitabile una mostra di manufatti artistici del tutto particolare, intitolata 10×100.
Elio Vittorini è qui sepolto a pochi passi. Appena superato il cancello dello stabilimento, la mia vista è stata attratta dalle lettere in acciaio specchiante illuminate con un sistema a led che campeggiano sul tetto. Esprimono una baldanza fiduciosa: Welcome To Someday (Benvenuto in futuro), e sono la prima delle 10 opere che il visitatore incontra. Mi sono allora venute in mente le parole, su carta, per la rivista Il Menabò scritte da Vittorini nel 1961 : la letteratura deve essere pienamente all’altezza della situazione in cui l’uomo si trova di fronte al mondo industriale.
Ebbene i dubbi che i due mondi (in questo caso dell’arte e della manifattura) fossero ancor oggi in grado di far confluire i loro intenti e operassero in stretta collaborazione per procurare emozioni e riflessioni a chi li frequenta occasionalmente o quotidianamente, sono subito svaniti avviatasi la visita guidata.
Lo stesso proprietario dell’azienda, Massimo Giovanardi, con parole sobrie ma appassionate, ci ha presentato il percorso artistico all’interno degli spazi lavorativi. La proprietà aveva l’impegno di ricordare i 100 anni di vita della Giovanardi Spa. Ma non si è limitata a finanziare degli artisti, perché creassero delle pompose opere celebrative. Fare cultura industriale è innanzitutto fare innovazione tecnologica, é cambiare in meglio la vita della gente.
Da qui l’idea di mettere al servizio di 10 artisti contemporanei, l’esperienza di tutte le maestranze della Giovanardi, l’uso dei suoi macchinari e materiali d’avanguardia. Costoro sono stati invitati a risiedere per un periodo più o meno lungo nell’azienda e a confrontarsi con gli industrial designers dell’area sviluppo, con gli operai e i tecnici dell’area produttiva mentre creavano le loro opere o installazioni. Ne è così scaturita una continua e proficua crescita umana e professionale, direi perfino palpabile in chi attraversa gli ambienti di lavoro dove sono collocate le opere, che ha coinvolto ognuna delle persone presenti a vario titolo in questo progetto di arte in fabbrica.
A partire dall’iconico Calcolatore Olivetti Logos 58 riprodotto in alluminio e verniciato a polvere epossidica, alle foglie naturali di loto o di altri vegetali stabilizzate in alluminio, acciaio, ferro e ripassate con la grafite o verniciate e serigrafate fino a renderne le venature, per passare alla forma dodecaedrica di un riproduttore di suoni in acciaio ed alluminio con 12 diffusori audio conici, oppure alle polveri d’oro e altri pigmenti sparsi, alla maniera degli antichi, dall’artista su lastre tonde in metacrilato che sembrano le pupille sbarrate di coloro che assistettero alla strage nazifascista di Sant’Anna di Stazzema (Lu), fino ai led distribuiti su una misteriosa struttura in ottone sagomato che, attraverso un sapiente dosaggio dell’alone luminoso a cui dà impulso un software, prefigurano le anime di coloro che furono e che verranno nell’albero genealogico familiare inciso nel cuore di ognuno di noi e con cui grazie a questa installazione ci sembra di poter ancora interloquire, il percorso espositivo conferma, ad ogni tappa, e ne ho solo citate alcune, il principio che là dove si riesce a dar spazio ai contenuti e ai principi estetici, si innova e si affina la ricerca tecnologico-scientifica.
Volutamente non ho fatto nessun riferimento esplicito ai dieci artisti che hanno dialogato faccia a faccia con coloro che li hanno aiutati a innovare un segmento della loro arte. Il personale, i collaboratori a vario titolo di questa azienda hanno il piacere di convivere seppur temporaneamente con le opere che nel loro ambiente di lavoro sono state ideate, progettate e rifinite. Perciò avrei dovuto aggiungervi i nomi di tutti coloro che hanno reso possibile il risultato di una tale impresa umanistica. Rimando quindi per gli opportuni approfondimenti al catalogo e al sito che la proprietà e i sapienti curatori (Martina Cavallarin e Marco Tagliafierro) hanno accuratamente realizzato.
A me, alla fine di questa esperienza, è rimasta la convinzione che in Italia le risorse per competere nel campo della innovazione ci sono. Ma occorre predisporsi ad una generosa cultura di impresa, e riaffidarsi a quell’ “orgoglio industriale” che, parafrasando il titolo del libro appena pubblicato da Il Sole 24 Ore (Le fabbriche che costruirono l’Italia di Giuseppe Lupo), animava gli imprenditori e le fabbriche che costruirono l’Italia.